
Che cos'è un "bel" film? Alcune risposte ad una domanda impossibile
Terza parte: I meccanismi mentali dietro i giudizi di valore
Luciano Mariani
info@cinemafocus.eu
© 2025 by Luciano
Mariani, licensed under CC
BY-NC-SA 4.0
|
1. Introduzione In questa terza parte passeremo dal considerare i criteri in base ai quali un film può essere definito, almeno da alcuni spettatori, come un "bel" film, ad esaminare i meccanismi mentali che entrano in gioco in questo processo di attribuzione di valore, cioè quali operazioni compie uno spettatore per arrivare ad "amare" un film. Il nostro punto di partenza è la constatazione che gli esseri umani tendono per loro natura a chiedersi le cause di un fenomeno che attira la loro attenzione. Di fronte ad alcune esperienze (ad esempio, il vedere un'edera che si attorciglia attorno al tronco di un albero, o il brusco cambiamento nel movimento del mare) non ci si chiede di norma quale sia la ragione dietro ciò che vediamo (sappiamo che si tratta della natura e delle sue leggi), anche se fenomeni più rari, che non rientrano nell'esperienza quotidiana e di cui si ignorano le ragioni precise (ad esempio, un'euzione vulcanica), possono stimolare la curiosità più di altri, specialmente se non si possiedono le conoscenze adeguate. Ma questa ricerca di causalità diventa molto più impellente nelle interazioni sociali, quando cioè la comunicazione quotidiana, alla base del nostro vivere in comunità, può porre problemi e stimolare quindi una riflessione. Come esseri sociali siamo normalmente molto sensibili, anche se in modo inconsapevole, agli atti comunicativi in cui siamo coinvolti. I segnali che riceviamo dagli altri, attraverso il linguaggio verbale (le parole) e attraverso il linguaggio non-verbale (gesti, sguardi, sorrisi ...) vengono continuamente interpretati per potere fornire le risposte più appropriate, ma se qualcosa non funziona, per esempio se questi segnali sono ambigui o inaspettati, immediatamente ci chiediamo che cosa abbia spinto il nostro interlocutore ad emettere quel segnale - la ricerca della causa di questo episodio è mossa dalla premessa, che diamo per scontata, che dietro ogni atto comunicativo ci sia un'intenzione da parte del suo emittente. Se una persona mi chiede l'ora davanti ad una parete dove è appeso un grosso orologio, o se uno sconosciuto mi guarda fissamente negli occhi, la percezione di questi atti comunicativi (verbali o non-verbali) fa scattare dentro di me la necessità di capire che cosa li ha causati. In altre parole, gli stimoli provenienti da altri vengono di norma considerati intenzionali, cioè frutto di scelte consapevoli da parte dei nostri interlocutori: posso allora ipotizzare, ad esempio, che la persona che mi chiede l'ora non si fidi dell'orologio alla parete o di quello che porta al polso, e che la persona che mi fissa lungamente abbia riconosciuto in me qualcuno che le è familiare ... 2. Il film come stimolo intenzionale Allo stesso modo, durante e dopo la visione di un film gli spettatori si chiedono continuamente, anche se in modo in genere del tutto inconsapevole, che cosa intenda dire chi ha realizzato il film (non solo il regista, ma tutte le altre figure che partecipano a questa impresa collettiva, come lo sceneggiatore, il direttore della fotografia, il montatore, l'autore della colonna sonora, e così via) - e questo, in modo particolare, se ciò che vediamo e sentiamo ci stupisce o ci lascia perplessi perchè è insolito, ambiguo, incomprensibile o anche soltanto in contrasto con le nostre aspettative. Attribuiamo cioè al film (o meglio, a chi lo ha realizzato) un'intenzione precisa, che diventa tanto più saliente quanto più non riusciamo a farcene subito un'idea precisa. Un'immagine, un suono, un rumore o un motivo musicale possono così mobilitare la nostra attenzione per cercare di interpretarne le cause sottostanti e almeno ipotizzare quali scopi, convinzioni, atteggiamenti, motivazioni, tratti di personalità, o, per usare un termine molto generale, stati mentali abbiano indotto il cineasta (il regista o chi per esso) a fare le scelte che ha fatto. In particolare di fronte a stimoli ambigui, ci chiediamo che cosa il film vuole farci capire, sentire, giudicare ... quali reazioni cognitive e affettive ci si aspetta che mettiamo in moto; in questi casi, la nostra attenzione diventa più consapevole e in un certo senso, ci "distanziamo" dal film per poter interpretare meglio lo stimolo (che, ripetiamolo, percepiamo come intenzionale) che ci viene offerto. Certamente la nostra realtà quotidiana differisce da quella cinematografica: un film, anche se pretende di essere realistico, cioè di riflettere la realtà, è di fatto il frutto di una selezione ed organizzazione di scene, personaggi, comportamenti ... di solito accuratamente "manipolati" (nel senso positivo o almeno neutro di questo termine), sulla base di convenzioni cinematografiche che accettiamo in un film ma che non accetteremmo nella vita reale. Non solo inquadrature, scene o sequenze ci trasportano continuamente nello spazio e nel tempo, ma possono, contrariamente a quanto accade nelle esperienze quotidiane, aggiungere a ciò che vediamo e sentiamo dimensioni altre e alternative: una scena può diventare così allusiva, ironica, simbolica ... Non c'è dubbio che le convenzioni cinematografiche come il montaggio o i movimenti della macchina da presa siano collegati con le capacità con cui affrontiamo e interpretiamo la vita reale, ma al contempo esse trascendono la realtà quotidiana perchè messe al servizio di una realtà alternativa, costruita intenzionalmente, come quella di un film. Anche un singolo oggetto può assumere un significato e una valenza che vanno oltre la sua semplice percezione fisica: in Il cacciatore di aquiloni vediamo i due giovani protagonisti (Amir, un agiato ragazzo afghano di Kabul, orfano di madre, e il suo amico Hassan, figlio del povero servo della famiglia di Amir) giocare a "cacciare" gli aquiloni, cioè cercare di tagliare il filo dell'aquilone avversario - i due ragazzi sono talmente bravi da diventare campioni di Kabul. La vista degli aquiloni attiva subito negli spettatori possibili esperienze, ricordi, rimpianti (diversi naturalmente a seconda del "bagaglio" che ciascuno spettatore porta con sè), ma, inseriti in un contesto familiare, sociale, culturale così distante dagli occhi occidentali, possiamo anche chiederci (anche inconsapevolmente) quale sia il significato che nel film essi assumeranno, che ruolo giocheranno, se faranno per esempio progredire la storia o arricchire la descrizione dei personaggi o se, al contrario, saranno trattati come semplici oggetti di scena - e le risposte che formuleremo a queste domande determineranno anche il modo in cui questi aquiloni vengono da noi percepiti e memorizzati (e dunque il ruolo che svolgeranno nella nostra interpretazione del film). Allo stesso tempo, il contesto dei due ragazzi, amici ma così diversi come estrazione sociale, potrà anche farci percepire, nel corso del film, che gli aquiloni possono diventare un simbolo di libertà e di affrancamento da pesanti vincoli sociali e culturali. |
|
|
Il cacciatore di aquiloni/The kite runner (Marc Foster, USA 2007) |
|
|
La percezione di ciò che vediamo e sentiamo provenire dallo schermo si
basa dunque sulle nostre capacità generali di interpretare le nostre
esperienze quotidiane, ma il film, tramite i dispositivi che gli sono
propri, ci induce a trascendere il semplice riconoscimento diretto di
oggetti, personaggi, situazioni, per porci ulteriori domande su ciò che
il film stesso intende comunicarci con l'introduzione e
l'organizzazione di questi elementi. Quando Hitchcock, in La donna
che visse due volte, ci mostra la donna (Kim Novak), che il
detective (James Stewart) sta pedinando, entrare in un museo e sedersi
davanti ad un quadro, restando poi a lungo a fissare il personaggio
raffigurato nel dipinto, dirige la nostra attenzione sui capelli della
donna (A) e poi subito dopo su quelli della donna del dipinto (B), che sono
acconciati nella stessa maniera. In tal modo l'acconciatura assume subito un
significato che trascende il mero dato fisico per suggerirci un legame
ben più intrigante tra queste due figure femminili. E gli spettatori più
attenti (o anche chi rivede il film due o più volte) si accorgeranno che
Hitchcock usa il motivo della "spirale" (presente nell'acconciatura)
come elemento ricorrente nel film, a partire dai titoli di testa (C), in cui
il detective subisce un incubo in cui sembra precipitare in un vortice
che lo inghiotte, fino alla scala a spirale della torre del monastero
(D) in
cui si svolgono due scene cruciali, e fino alle vertigini (da cui il
titolo originale, Vertigo) di cui il detective soffre. |
|
![]() |
|
|
A
B
C
D La donna che visse due volte/Vertigo (Alfred Hitchcock, USA 1958) |
|
|
Per fare un altro esempio, quando Eisenstein nel già citato La
corazza Potemkin intende farci comprendere le ragioni
dell'ammutinamento, utilizza il montaggio di scene tra i marinai, messe
in rapida successione con le immagini dei vermi che infestano la carne
destinata ai pasti (al minuto 05:39): questo montaggio non ha soltanto lo scopo di
informarci sull'igiene a bordo della nave, ma ci illumina in modo
drammatico sulle condizioni in cui sono tenuti i marinai e, più
ampiamente, sulla ribellione nei confronti di un sistema violento e
oppressivo. La contrapposizione delle scene è il
dispositivo che il regista utilizza per "far parlare" le immagini,
arricchendole di un significato simbolico che trascende la pura
rappresentazione degli oggetti. Ancora una volta, diamo un senso a ciò
che vediamo perchè, più o meno consapevolmente, ci chiediamo quali
intenzioni animavano il regista nelle sue scelte di contenuto e di
forma: entriamo nei suoi stati mentali per poter interpretare
ciò che vediamo. E, almeno entro certi limiti, condividiamo con lui/lei
la conoscenza delle convenzioni cinematografiche utilizzate nel
film: anche se è la prima volta che vediamo questa scena, e anche se non
siamo cinefili incalliti, capiamo che il montaggio serrato ci vuole dire
qualcosa - qualcosa che va al di là delle immagini stesse. |
|
|
La corazzata Potëmkin/Бронено́сец «Потёмкин» (Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, URSS 1925) |
|
|
3. Attribuire intenzioni al regista: dal cinema classico al
cinema (post)moderno Certamente i film variano moltissimo rispetto alla possibilità, per gli spettatori, di attribuire delle intenzioni al regista. Ad esempio, i film della "Hollywood classica" (grosso modo al suo apice tra gli anni '40 e gli anni '60 del secolo scorso) erano congegnati in modo da offire al pubblico una storia lineare e ben comprensibile, con personaggi motivati da scelte ben precise e, di conseguenza, con una chiara catena di cause/effetti che si traduceva in eventi logicamente collegati tra loro, dal principio fino allo spesso inevitabile "finale felice" (happy ending). Un film prodotto con questo tipo di dispositivi risultava perciò facilmente comprensibile ed interpretabile, e tutte le convenzioni cinematografiche assolvevano a questa funzione basilare. Ma era altrettanto importante che i dispositivi (dalle inquadrature ai movimenti della macchina da presa, dal montaggio alla colonna sonora, e così via) rimanessero nascosti, per così dire, agli occhi degli spettatori, in modo da dare l'illusione che il film "procedesse da sè" e risultasse in una visione fluida, sempre chiaramente comprensibile. In questo sistema produttivo il pubblico non sentiva la necessità (nè aveva la possibilità) di porsi domande sulle intenzioni del regista, il quale, come tutte le figure professionali coinvolte, risultava così "invisibile". Naturalmente ciò non impediva ai registi stessi, soprattutto a quelli con ambizioni "autoriali", di includere nei loro film momenti e immagini che in qualche modo potevano stimolare gli spettatori (magari non tutti) a soffermare la loro attenzione e a chiedersi il significato di ciò che vedevano e sentivano: abbiamo appena visto come registi "classici", seppure così diversi come Hitchcock ed Eisenstein non rinunciassero a "lasciare la loro impronta" tramite immagini sofisticate, dai significati plurimi e a volte anche molto complessi. Con l'avvento del cinema "moderno", coincidente con la cosiddetta "New Hollywood" e con le "nuove onde" (nouvelle vagues) di tante nuove cinematografie nazionali, il modello classico fu rapidamente messo in crisi: di fronte a mutati scenari sociali e culturali, il nuovo cinema rispondeva con un rinnovamento non solo dei contenuti ma anche delle forme - con i registi spesso ora più inclini a "svelare" i meccanismi così nascosti ed impliciti del cinema classico, assumendo nel contempo più radicalmente il ruolo di "autori". In tal modo, anche gli spettatori venivano incoraggiati ad assumere un atteggiamento più attivo e consapevole nei confronti dei film, e, parallelamente, ad assumersi la responsabilità, di fronte ad immagini complesse, di chiedersi quali fossero le intenzioni del regista. Anche in questo caso, tuttavia, il panorama cinematografico rimaneva comunque variegato e certamente non omologato o appiattito su pochi modelli. Con i successivi sviluppi "post-moderni", a partire dagli anni '80 del secolo scorso, il cinema si è ulteriormente evoluto verso forme espressive che rimettevano in causa i classici generi, rifondandoli a volte in modi originali, riprendendo temi e forme espressive del passato, con una consapevolezza più spinta degli stessi "meccanismi cinematografici": questo ha comportato, in linea generale, anche un diverso rapporto con gli spettatori, anch'essi ormai più consapevoli di quello che il cinema ha saputo e sa tuttora offrire, e quindi più disponibili ad interpretare le intenzioni dei registi nella loro scelta e trattamento di contenuti (storie, personaggi, eventi ...) e forme (stili, linguaggi ...) complessi e spesso stratificati, oltre o sotto la superficie di immagini e suoni. |
|
![]() Sia Barry Lyndon (Stanley Kubrick, GB-USA 1975) che La storia di mia moglie/A feleségem története (Ildikó Enyedi, Ungheria-Germania-Francia-Italia 2021) sono suddivisi in "capitoli", ciascuno con un titolo, come se l'intenzione del regista fosse di segnalare ai suoi spettatori che, come in un libro, si sta narrando una storia, e che quindi c'è da aspettarsi una scansione ben definita degli eventi. |
|
|
La La Land (Damien Chazelle, USA 2016) rimanda in modo piuttosto esplicito ai musical classici hollywoodiani degli anni '30 del secolo scorso, come Voglio danzare con te/Shall we dance (Mark Sandrich, USA 1937): si confronti la scena nel parco con Ryan Gosling ed Emma Stone con quella (al minuto 1:10:25), sempre in un parco, con Fred Astaire e Ginger Rogers. Questo tipo di rimandi viene ovviamente avvertito (ed apprezzato) solo dagli spettatori più "cinefili", e l'intenzione del regista verrà dunque colta solo in parte. |
|
|
4. Il "gioco" tra regista e pubblico Questo invito a riconoscere la presenza del regista dietro le immagini, a prestare attenzione a dei "segnali" o "indici" che il regista, più o meno consapevolmente, ha disseminato durante il film, porta così gli spettatori a ipotizzare quali stati mentali abbiano indotto il regista stesso a fare le scelte che ha fatto, che cosa voleva far capire e sentire al suo pubblico, e con quali mezzi, cioè con quali utilizzi del linguaggio cinematografico, è riuscito (o meno) nel suo intento. Naturalmente, non tutti gli "indizi" o "segnali" lasciati dal regista hanno la stessa visibilità: alcuni possono essere più espliciti e indicarci piste interpretative abbastanza chiare, altri possono invece essere più impliciti e suggerire significati in modo più indiretto. Lo stesso regista può aver volutamente lasciato questi indizi, ma può anche averlo fatto inconsapevolmente, come può capitare anche che non sia riuscito a nasconderli ... Ciò implica che gli spettatori possono essere coinvolti nel "decodificare" questi segnali a diversi livelli di consapevolezza, da semplici sensazioni o impressioni a una riflessione più meditata, fino all'analisi critica che sottopone il film ad un esame più dettagliato ed approfondito. E, come abbiamo più volte sottolineato, anche in questo caso risultano cruciali le differenze individuali: a seconda delle proprie conoscenze ed esperienze pregresse, della situazione, dell'umore, dell'"impegno" con cui ciascuno affronta la visione di un film, ogni spettatore "lavora" a livelli diversi (di consapevolezza, di profondità, di analisi ...) e giunge quindi a ipotesi personali circa le intenzioni del regista nel realizzare un certo film in un determinato modo. Ribadiamo che questo processo tramite cui gli spettatori attribuiscono al regista particolari intenzioni non ha nulla di automatico o di meccanico: al contrario, come abbiamo sottolineato le differenze tra gli spettatori, così dobbiamo ricordare che anche i registi differiscono tra loro, sia per quanto riguarda il loro stesso livello di consapevolezza, sia per quanto riguarda la loro (implicita o esplicita) volontà di stimolare i loro spettatori a una qualche forma di riflessione sui loro film. Le reali intenzioni dei registi, insomma, già di per sè non sempre chiaramente espresse, non devono essere confuse con le ipotesi fatte dagli spettatori - e forse proprio in questo continuo e inevitabile "gioco" tra regista e pubblico sta uno degli aspetti più intriganti del cinema come ricca e complessa forma di comunicazione. 5. Le diverse scelte da parte dei registi "Ci sono due tipi di registi: quelli che tengono conto del pubblico nel concepire e poi nel realizzare i loro film e quelli che non ne tengono conto. Per i primi, il cinema è un'arte dello spettacolo, per i secondi, un'avventura individuale." François Truffaut (Nota 1) Truffaut sintetizza in questo modo le differenze tra i registi riguardo alla loro relazione con i destinatari del loro lavoro, cioè gli spettatori. Un regista può decidere di assecondare il più possibile quelli che ritiene essere i gusti del pubblico a cui si rivolge, andando incontro alle sue aspettative e creando un'opera che riduca al minimo le ambiguità nell'interpretazione. Per fare questo ricorre ad un uso del linguaggio cinematografico chiaro e trasparente, che sappia trasmettere in modo fluido e coerente i significati (e le emozioni) connesse alla storia e ai personaggi. Un modo per raggiungere questo scopo è quello di aderire in modo più o meno radicale ad un genere cinematografico: utilizzerà allora le forme e i contenuti "tipici" di, ad esempio, un western o un horror, per consentire agli spettatori di utilizzare appieno le loro conoscenze ed esperienze precedenti di questo genere di film. All'estremo opposto, un regista di film "sperimentali" non si propone in primo luogo di essere "comprensibile", nè tanto meno di "piacere" necessariamente a tutti i suoi potenziali spettatori: la preoccupazione di dialogare con il pubblico è secondaria rispetto al desiderio di creare qualcosa di nuovo e di inaspettato, rendendo così la realizzazione di un film, in primo luogo, un'"avventura individuale" (come dice Truffaut) piuttosto che un'azione socialmente condivisa. Naturalmente, tra questi due estremi opposti esistono tutti i tipi di situazioni intermedie, cioè di registi che cercano di tenere assieme le esigenze (anche e soprattutto commerciali) dello "spettacolo", da una parte, e le proprie ambizioni estetiche e culturali, dall'altra - e questo può anche portare alla realizzazione di film che al loro stesso interno sembrano presentare entrambe queste posizioni. Truffaut, che aveva così chiara questa distinzione di scelte registiche, considerava senza alcun dubbio Hitchcock come un regista molto attento alle esigenze e ai desideri del pubblico, ma, come abbiamo avuto occasione di nostrare nel caso di La donna che visse due volte, Hitchcock stesso amava inserire nei suoi film elementi che non tutti i suoi spettatori avrebbero apprezzato, per non dire percepito o capito. In questo senso Hitchcock, oltre che un regista molto popolare, è stato anche un "autore", nel senso in cui Truffaut e tutti i suoi colleghi della nouvelle vague francese degli anni '60 intendevano la figura del regista, cioè un artista con un controllo pressochè totale della sua opera, capace quindi di imprimere su di essa il suo marchio inconfondibile, a prescindere dal riconoscimento e dall'apprezzamento da parte del pubblico. Ogni regista, pertanto, può decidere di rendere le sue intenzioni e le sue scelte più o meno trasparenti e comprensibili da parte di tutti o di alcuni suoi potenziali spettatori, riservandosi anche, se lo desidera, di includere elementi che abbiano un significato e una risonanza emotiva solo per se stesso (e che non necessariamente verranno resi noti o spiegati al pubblico). E può darsi anche il caso che questi elementi siano scelti perfino senza averne piena consapevolezza: di fatto ogni regista attinge di continuo alle sue personali esperienze, consce e inconsce, per realizzare il suo film, proprio come ogni spettatore utilizza quello che abbiamo spesso chiamato "bagaglio" personale di conoscenze ed esperienze per capire, interpretare e infine appezzare (o meno) quello stesso film. Come Miguel Gomes, regista di Tabou, ha avuto occasione di dire: "Faccio tutte queste scelte sul set, non prima. Ma le comprendo riguardando il film, non durante le riprese. Un po' di più al momento del montaggio, ma non in maniera così razionale. Ho solo la sensazione che sia giusto, che sia bene." (Nota 2) Si riconferma così la natura soggettiva delle scelte e delle intenzioni di un regista, che, anche nel momento in cui, tramite il suo film, compie un atto comunicativo rivolto agli spettatori, può decidere, con minore o maggiore consapevolezza, di rendere aspetti ed elementi del film stesso comprensibili ed appezzabili da parte di tutti, da parte di alcuni, e persino, in modo "gratuito", da parte di nessuno in particolare. E questo riconferma anche che il "bagaglio" personale del regista e quello di ciascuno dei suoi spettatori possono essere condivisi, ma in modo graduale su un continuum che va dai valori universali che tutti potenzialmente condividono alle più personali idiosincrasie personali. Se, da un lato, si potrebbe pretendere da un regista che il suo film possa essere capito grazie a conoscenze ed esperienze condivise da tutti o da molti, dall'altro lato non si può limitare la libera espressione creativa che fa a meno di queste conoscenze ed esperienze. E sarebbe d'altronde auspicabile che gli spettatori acquisiscano quante più conoscenze ed esperienze possibile, perchè ciò aumenterebbe di molto la loro capacità di capire ed apprezzare ogni film e più film diversi - dando loro magari la possibilità di scoprire che un certo film è un "bel" film ... 6. I diversi "linguaggi" che parla il cinema Strettamente correlata a questo discorso è la questione dei "linguaggi" che un regista utilizza nel suo lavoro. Si è visto infatti che alcuni degli elementi o aspetti di un film a volte meno "trasparenti", e di più difficile (o meno agevole) comprensione, sono di natura visiva: il motivo della "spirale", che in La donna che visse due volte ricorre a più riprese, dai vortici dei titoli di testa all'acconciatura della donna, dalle scale a spirale alla vertigini del protagonista, pur essendo messo in scena più volte in modo esplicito, può non essere colto dagli spettatori, per lo meno non nello stesso modo in cui essi capiscono un dialogo tra i personaggi o un'immagine o un suono molto familiari. Ciò rimanda alla natura stessa del cinema, che è uno strumento multimediale che si avvale di linguaggi anche molto diversi tra loro: da quello verbale a quello visivo e uditivo, con un'interrelazione complessa tra i linguaggi stessi fornita dalla messa in scena, da ciò che è visibile direttamente ("in campo") a ciò che rimane invisibile anche se presupposto (il "fuori campo"), dai movimenti della macchina da presa al montaggio, dall'uso degli effetti speciali alla colonna sonora. Non tutti questi "linguaggi" sono immediatamente comprensibili e interpretabili da parte del pubblico: in particolare, il linguaggio verbale, che tende a definire con chiarezza i suoi contenuti, è solo una parte dell'esperienza fornita da un film, che offre una gamma di messaggi ben più vasta ed articolata. Così come è a volte difficile, se non impossibile, tradurre un intero film in una descrizione puramente verbale, ancora più difficile è usare questo stesso linguaggio per descrivere le intenzioni del regista che ci sembra di aver colto guardando un suo film. I limiti del linguaggio verbale, che tende ad essere analitico, esplicito, persino "digitale", sono subito evidenti di fronte alle immagini e ai suoni trasmessi da un film, che sono spesso globali, impliciti, "analogici", e che rimandano spesso non a singoli elementi ben identificati ma ad esperienze, ricordi, conoscenze, nella mente dello spettatore. La visione di un film è un fatto "esperienziale", che coinvolge, ben al di là dei canali sensoriali della semplice "vista" e del semplice "udito", i nostri meccanismi cognitivi, affettivi e motori più profondi, la nostra memoria, il nostro intero corpo che viene sollecitato in tutta la sua ricchezza e complessità. Ed è proprio grazie a questo complesso linguaggio esperienziale, strettamente legato alla realtà che viviamo come alla realtà che ci propone il film, che riusciamo a capire, interpretare ed apprezzare elementi di un film che il solo uso del linguaggio verbale non riuscirebbe a cogliere. Certamente tutto ciò assume maggiore rilevanza di fronte a quei film che, come abbiamo già discusso, includono il risultato di scelte registiche meno immediatamente comprensibili da parte del pubblico, o che per lo meno si prestano a più di una singola interpetazione. Picnic ad Hanging Rock, ad esempio, potrebbe di primo acchito essere considerato semplicemente (o soltanto) uno thriller: si narra infatti di un'escursione in un luogo desertico da parte di alcune ragazze di un istituto femminile nell'Australia del primo Novecento, escursione durante la quale alcune di esse si arrampicano sulle rocce, facendo perdere completamente le loro tracce. Come thriller il film "funziona", anche se il mistero di questa avventura non viene affatto svelato (cosa che alcuni spettatori riterrebbero grave per questo genere cinematografico). Ma la visione del film va ben oltre gli eventi legati alla vicenda, che sono tutto sommato piuttosto scarni, ed anche lo spettatore meno avvertito si accorge che le numerose immagini della natura e del rapporto che le ragazze sembrano avere con questi luoghi affascinanti quanto inquietanti sembrano "voler dire" molto di più - o, in altri termini, che le intenzioni del regista vanno ben al dà del semplice racconto di una sparizione. Ma, se questo "racconto" può anche essere descritto in modo analitico con il linguaggio verbale, altra cosa è riuscire a identificare il messaggio trasmesso dalla ricchezza e dall'ambiguità delle immagini (peraltro strettamente integrate al "racconto" stesso). Capiamo che queste immagini chiamano in causa la nostra esperienza sensoriale ed esperienziale, di esseri umani prima ancora che di spettatori, che siamo chiamati a dare un senso a ciò che vediamo, ma anche a capire le emozioni che contestualmente percepiamo. |
|
|
Picnic ad Hanging Rock/Picnic at Hanging Rock (Peter Weir, Australia 1975) Le immagini delle ragazze che salgono verso la cima della roccia si alternano alle immagini del paesaggio, al contempo affascinante e minaccioso. L'insistenza del regista su questa natura a volte perfino antropomorfica insinua un senso di mistero ma anche di "horror" quasi metafisico. Percepiamo come spettatori queste sottili sensazioni di attrazione verso un ignoto attraente quanto inquietante ... |
|
|
Ad un certo punto le ragazze si sdraiano in una radura e si addormentano. Di nuovo la natura si impone, con l'immagine di un piccolo serpente che striscia accanto ai corpi delle ragazze. L'immagine dell'accompagnatrice, che guarda in alto, verso la cima della roccia (al minuto 00:39), è accostata subito con l'immagine di un testo di geometria: qual è la funzione di questo rapidissimo accostamento? L'istitutrice sembra interpretare la sua visione della roccia con il ricorso ad un'immagine scientifica ... mentre subito dopo tre delle quattro ragazze, risvegliatesi, riprendono la salita, quasi "in trance". La quarta ragazza, spaventata, scende ed il suo urlo terrorizzato riempie il silenzio del luogo. Uno spettatore più avvertito potrà intuire che il regista ha voluto rappresentare un tema a lui caro (e che riprenderà, a livelli diversi, nei suoi film successivi): "il conflitto irrisolvibile tra cultura (razionale, perbenista, opprimente) e natura (irrazionale, vitalistica, liberatoria)" (Nota 3) |
|
|
Un film come Picnic ad Hangin Rock si presta dunque a molte
"piste interpretative" e solleva al contempo molte domande, a diversi
livelli di complessità. Se è uno thriller, perchè non ci viene fornita
la soluzione dell'intrigo? Che funzione hanno le immagini della natura,
continuamente (quasi ossessivamente) esibite? Sono solo un modo di
mostrarci dei bei panorami naturali? Ma in questo caso, perchè sono così
numerose ed incisive? Ha un significato particolare la scelta di
ambientare il film nell'Australia degli inizi del Novecento, in un
periodo ancora segnato dal colonialismo? E, se conosciamo i successivi
film del regista, come ad esempio L'attimo fuggente (un
melodramma su un carismatico professore e sui suoi alunni) o Green
Card - Matrimonio di convenienza (una commedia "romantica" a lieto
fine) come interpretare Picnic ad Hanging Rock alla luce dei
motivi ricorrenti nella sua filmografia? Tutte domande
legittime, che non tutti gli spettatori si pongono naturalmente, ma che
danno l'idea dei numerosi modi in cui è possibile "interrogare" un film
e delle tante risposte possibili - risposte che forse costituiscono
altrettanti buoni motivi per giudicare un film come un "bel" film ... 7. Tra analogie e metafore I linguaggi che il cinema utilizza, non solo per narrare storie e descrivere personaggi ed ambienti, ma anche per suggerire significati e stimolare emozioni, possono dunque passare attraverso il trattamento più o meno sofisticato di immagini e suoni, che per loro stessa natura sono evocativi, ossia possono far emergere negli spettatori idee e stati d'animo diversificati, a seconda delle predisposizioni e degli atteggiamenti, nonchè delle conoscenze ed esperienze, con cui gli spettatori stessi si avvicinano alla visione di un film. In tal modo le intenzioni del regista vengono continuamente reinterpretate, fornite di senso e di valore. L'utilizzo dei linguaggi cinematografici può però essere più o meno diretto/indiretto e più o meno implicito/esplicito, il che comporta un diverso impegno di percezione ed interpretazione da parte degli spettatori. L'uso di analogie, ad esempio, attraverso cui alcune immagini possono suggerirci il ricordo ed il confronto con altre immagini immagazzinate nella nostra memoria, può essere più o meno agevole, a seconda dell'immediatezza delle immagini e, naturalmente, delle conoscenze che deve attivare lo spettatore. Il cinema (post)moderno utilizza spesso rimandi più o meno espliciti ad altri film: ad esempio, il cinema di Quentin Tarantino è infarcito di "ricordi" di film, che il regista (incallito cinefilo) riutilizza e in un certo senso "ricrea", spesso con intenti satirici: un film "di guerra" come Inglorious bastards o un film western "revisionista" come Django unchained contengono una varietà di elementi (soprattutto formali, stilistici) che rimandano a film italiani degli anni '60 e '70 appartenenti agli stessi generi cinematografici (Django unchained è un omaggio diretto al film Django del 1966 diretto da Segio Corbucci). Non è certo indispensabile conoscere questi "rimandi" per apprezzare i film di Tarantino, ma certamente lo spettatore più accorto avrà una possibilità in più di godimento. |
|
|
Bastardi senza gloria/Inglorious basterds (Quentin Tarantino, USA-Germania 2009) |
Django unchained (Quentin Tarantino, USA 2012) |
|
Anche l'uso delle metafore, attraverso cui due scene vengono
messe in relazione tra di loro per stimolare un confronto ed arricchirne
così la comprensione e l'interpretazione, può essere più o meno diretto
ed esplicito. Se le due scene vengono accostate tramite il montaggio,
l'effetto può essere colto abbastanza agevolmente anche da spettatori
non particolarmente sensibili ed avvertiti. Quando Fritz Lang in
Fury accosta l'immagine di un gruppo di donne con quella di un
pollaio, viene subito sottolineato il peso dei pettegolezzi e dei
chiacchiericci; e quando Charlie Chaplin in Tempi moderni
accosta l'immagine degli operai che escono dalla fabbrica con quella di
un gregge di pecore, risulta evidente il messaggio dell'alienazione e
della passività cui sono ridotti gli operai stessi (specialmente se si
mettono in relazione queste immagini con la sarcastica didascalia che le
precede: "'Tempi moderni.' Una storia di industriosità, di
intraprendenza individuale. L'umanità in crociata alla ricerca della
felicità". |
|
|
Furia/Fury (Fritz Lang, USA 1936) |
Tempi moderni/Modern times (Charlie Chaplin, USA 1936) |
|
Si tratta di un
procedimento che non è esente da possibili critiche (ad esempio, per chi
ritiene che in tal modo sia fin troppo evidente la "mano" del regista, o
che ne vada di mezzo il "realismo" delle scene), ma che anche in tempi
più recenti registi/autori come Woody Allen non hanno esitato ad
utilizzare: in Crimini e misfatti, l'immagine del rivale del
protagonista viene accostata a immagini di Mussolini e di un asino ... |
|
|
Crimini e misfatti/Crimes and Misdemeanors (Woody Allen, USA 1989) |
|
|
Altre volte la metafora può essere più sottile e coinvolgere non una
singola scena o sequenza ma un intero film. The artist, ad
esempio, racconta una vicenda di due star hollywoodiane in un momento
cruciale per il cinema, il passaggio dal muto al sonoro verso la fine
degli anni '20 del secolo scorso. Ma il film realizza questa
"rievocazione" in modo radicale quanto sorprendente: il film, infatti, è
muto e rispetta alla lettera tutte le convenzioni tipiche di quei primi
decenni di storia del cinema: è girato in un formato "quadrato", in
bianco e nero e con le didascalie inserite per spiegare i dialoghi. La
storia punta molto (come aveva fatto, su tutt'altro registro,
Cantando sotto la pioggia) sul passaggio, per molti attori
drammatico, tra il muto e il sonoro, con il protagonista che si ostina a
voler produrre un film muto quando ormai questo tipo di cinema sta peer
esaurirsi, e, al contrario, la ballerina all'inizio della carriera e per
questo proiettata verso il futuro. Ma il regista non punta tanto sugli
eventi e sui personaggi quanto sul ritratto di un contesto al tramonto,
descritto con nostalgia e affetto. E gli spettatori vengono coinvolti in
questa operazione, che può essere letta come una metafora del declino di
un mondo che suscita anche in loro emozioni di nostalgia e quasi di
rimpianto: come se la nostalgia per un passato lontano trovasse
corrispondenza nella nostalgia che tutti noi (o almeno, molti di noi)
hanno provato in situazioni almeno in parte simili. Un passato sullo
schermo, dunque, che parla al presente del pubblico. Ed il
regista sembra giocare con le sfide che un simile progetto di film gli
pone continuamente, nel tentativo di riuscire a girare, nel 2011, un
film senza parole. Ancora una volta, le intenzioni (e le emozioni) del
regista possono così rispecchiarsi in quelle dei suoi spettatori,
chiamati a condividere con lui questa avventura - e l'esperienza
di questo film (della realizzazione per il regista, della visione
per il pubblico) trascende la storia narrata per assumere un valore più
universale. Come ha ben scritto Pignocchi, sia pure a proposito di un altro film
(il già citato Tabou)(Nota 4): "Non si tratta per il regista di imporsi artificialmente delle limitazioni tecniche, ma di ricreare alcune delle sensazioni che possono procurare i film muti allo spettatore d'oggi. In primo luogo, possono indurre a riflettere sulle virtù dell'economia: senza dialoghi, tutte le nostre facoltà di attenzione si concentrano sulle espressioni facciali, sugli sguardi e su tutti quegli elementi corporei che, più delle parole, sono legati alle emozioni ... In un film muto, siamo più ricettivi al modo in cui la musica dialoga con il racconto e, quando il suono aderisce in modo preciso all'immagine, abbiamo quasi l'impressione di un miracolo ..." |
|
|
The artist (Michel Hazanavicius, Francia 2011) |
|
|
8. Conclusione: l'analisi nuoce all'"immersione" in un "bel"
film? Qualcuno potrebbe obiettare che il riflettere su un film, o analizzarlo in minore o maggiore dettaglio, finisca per danneggiare la nostra immersione nella storia narrata e nelle vicende dei personaggi, danneggiando il nostro coinvolgimento emotivo e finendo col condizionare il nostro apprezzamento e il nostro giudizio finale sul film. In realtà si potrebbe rispondere a questa obiezione affermando che analisi e immersione non sono poi due procedimenti così separati e quasi contrastanti. Abbiamo visto che diventare più consapevoli di aspetti ed elementi di un film magari non così evidenti a prima vista può rendere la nostra esperienza di visione più ricca, e di fatto più coinvolgente. L'analisi e la riflessione possono poi servire a rendere più esplicite e comprensibili le ragioni del nostro interesse e del nostro coinvolgimento - e ciò non solo durante la visione ma anche a posteriori, quando magari ci capita o decidiamo di rivedere tutto o parte di un film. Infine, la riflessione critica, o, più semplicemente, il diventare più consapevoli di aspetti, elementi o motivi di un film, può assumere varie forme ed essere condotta a vari livelli di dettaglio e profondità. Non tutti potranno o vorranno condurre un'analisi critica, ma a tutti può capitare, a seconda anche dei contesti e della situazione in cui guardiamo un film, di farci delle domande su quello che il film (e il suo regista) intendono farci capire e sentire, ed anche, a volte, di chiederci come ha fatto il regista a sollecitare queste stesse nostre domande, con quali mezzi e attraverso quali usi del linguaggio cinematografico. Rimane alla fine un punto fermo, che è quello con cui abbiamo iniziato questo nostro lavoro: non tutti vorranno fare lo sforzo di riflettere su un film, ma a tutti deve essere lasciata la libertà di farlo. Il concetto di "bel film" rimane sfuggente e aleatorio, ma se alla domanda impossibile di "che cos'è un bel film" non possiamo fornire una risposta assoluta, possiamo però pur sempre chiederci che cosa ci spinge a considerarlo tale ... anche per ribadire il diritto inalienabile di ogni spettatore al proprio gusto e a trarre da un film il proprio piacere personale. |
|
Note
1. Truffaut F. 1975. Les films de ma vie, Flammarion, p. 104. Citato in Pignocchi A. 2015. Pourquoi aime-t-on un film? Quand les sciences cognitives discutent des gouts et des couleurs, Odile Jacob, Paris, p. 191.
2. Citato in Pignocchi, op. cit., p. 263.
3. Il Mereghetti, Dizionario dei film. Baldini e Castoldi, Milano.
4. Citato in Pignocchi, op. cit., p. 294.
